Sfollati dal Tigrai nel campo profughi di Qadarif in Sudan - LaPresse

Le vittime invisibili della guerra sporca parlano dal Tigrai

Sempre dal quotidiano Avvenire, la drammatica testimonianza di una donna vittima della crudeltà e della prevaricazione. Una delle numerosissime, troppe donne cui ancora oggi viene distrutta la vita. Nel mondo l’8 marzo è solo una data, purtroppo.


Di Paolo Lambruschi – Articolo pubblicato su Avvenire.it il 06/03/2021

Sfollati dal Tigrai nel campo profughi di Qadarif in Sudan - LaPresse
Sfollati dal Tigrai nel campo profughi di Qadarif in Sudan – LaPresse

Le lacrime di Sennait arrivano da Macallè. Nel capoluogo tigrino si nasconde da oltre 20 giorni per provare a curarsi. È una delle vittime invisibili della guerra sporca e nascosta che dal 4 novembre l’esercito federale etiope e i suoi alleati eritrei e le milizie regionali Amhara combattono contro il partito che governava il Tigrai, il Tplf. Una guerra durissima, con molti crimini di guerra e abusi (anche del Tplf secondo le Nazioni unite) oscurati da un blackout comunicativo e che solo ora stanno emergendo. Sennait, come tante altre tigrine, è stata rapita e usata come schiava sessuale per oltre una settimana da militari dell’esercito eritreo che avrebbero occupato la parte settentrionale della regione etiope anche secondo gli Usa, che ne hanno chiesto il ritiro immediato proprio per le violenze e gli abusi sui civili. La loro presenza sul suolo etiopico continua ad es- sere negata dalle autorità asmarine. La testimonianza di questa madre di 40 anni violata e umiliata conferma, però i racconti di molte altre donne tigrine fuggite nei campi profughi in Sudan o a Macallè. Viveva a Kerseber, poco lontano da Zalambessa, al confine con l’ex “colonia primigenia italiana”, villaggio dove c’è un ponte costruito dagli italiani quasi 90 anni fa sulla strada per Asmara.

La contadina è uscita di casa la mattina del 4 febbraio per comprare farina di teff, il cereale usato per la ’ndjera, la focaccia spugnosa che accompagna i piatti di queste aree rurali e povere. Non c’è più tornata. «Sapevo che gli eritrei – racconta – avevano passato il confine e occupato l’area da Zalambesa a Kerseber. Ma dovevo procurarmi il cibo per i miei figli di 6 e 11 anni. Mio marito è emigrato in Arabia Saudita tre anni fa. Hanno rapito me e altre otto donne, alcune giovanissime. Hanno preso perfino la moglie di un sacerdote. Ha implorato i militari di lasciarla stare, ma le hanno sparato in una gamba e l’hanno sequestrata. Ci hanno portato nel loro campo e immobilizzate».

Ed è iniziato l’incubo. «Mi hanno violentata notte e giorno in 15. Mi picchiavano e torturavano, quando chiedevo perché ci odiassero tanto dicevano che ora comandavano loro nel Tigrai e che ci avrebbero uccise. Erano giovanissimi, ma c’erano anche militari anziani». Come ha capito che erano eritrei? «Alcuni avevano tre piccole cicatrici sul volto, erano Beni Amer. Gli altri parlavano dialetti eritrei. Tutti calzavano sandali di plastica neri tipici delle truppe eritree». Dopo sette giorni, distrutta da lesioni pesantissime, Sennait è un peso per la soldataglia che si prepara a finirla con una pallottola. «Mi ha salvato una soldatessa eritrea che ha detto di lasciarmi stare». La povera donna viene scaricata di notte nel villaggio, come un rifiuto. La trova un altro sacerdote che le presta le prime cure e, vista la gravità della situazione, la carica su un furgone e la porta e Idaga Hamus, a 90 chilometri da Macallè.

Lì riesce a trovarle un passaggio per l’ospedale del capoluogo, uno dei pochi ancora attivo. «Non ho più sentito i miei figli – grida disperata – non so che fine abbiano fatto. Là si combatte e io in queste condizioni non posso neppure muovermi». A Macallè vive con altre 40 vittime di violenza nascosta da una associazione umanitaria locale che cerca di curarle come può nell’emergenza umanitaria. Le loro preziose testimonianze confermano le accuse dell’Alto commissario per i diritti umani dell’Onu Michelle Bachelet alle forze armate etiopi ed eritree. Queste ultime per la seconda volta in sette giorni sono state accusate del massacro compiuto il 28 e 29 novembre 2020 ad Axum, città santa ortodossa dell’Etiopia. Venerdì 27 febbraio aveva pubblicato un dettagliato dossier choc sulle responsabilità eritree Amnesty international.

Accuse liquidate come «assurde» dal regime di Asmara. Ieri un rapporto di Human Rights Watch ha ribadito con prove forti che i militari eritrei hanno massacrato decine di civili nella storica città. Le due Ong hanno chiesto all’Onu di avviare con urgenza «un’indagine indipendente sui crimini di guerra e sui possibili crimini contro l’umanità nella regione». Ma il Consiglio di sicurezza mercoledì scorso non ha raggiunto il consenso necessario per approvare una dichiarazione sulla crisi che invocava la fine delle ostilità e l’accesso umanitario pieno nella regione. A opporsi Russia, Cina e India, che hanno ritenuto la questione un affare interno dell’Etiopia. Che, però, forse per allentare la pressione internazionale, ha dichiarato di aver distribuito cibo a 3,8 milioni di tigrini e di aver semplificato le procedure per gli aiuti umanitari.

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